Oggi abbiamo avuto il privilegio di intervistare – in esclusiva – Sandro Solinas, autore di “Stadi d’Italia”, che ha risposto ai microfoni di Catanzarosport24 ad alcune domande che gli abbiamo riservato raccontando le opinioni personali riguardo ai templi del calcio italiano.
Il suo è un lavoro straordinario. Ripercorrere la storia del calcio italiano attraverso una minuziosa opera di narrazione dei suoi stadi richiede – senza dubbio – una grande passione oltre che fatica. C’è stato qualcosa che l’ha spinta più di tutte? E quanto si è divertito nel farlo?
“Lo spirito del mio lavoro di ricerca è sempre stato il desiderio di rimuovere l’oblio calato sui nostri stadi, dimenticati senza un vero perché, pur essendo lo scrigno dei nostri ricordi e delle nostre emozioni. Se Stadi d’Italia nasceva dall’idea di raccontare le vicende passate delle nostre arene, Vecchi Spalti voleva essere invece un omaggio alle nostre città, alla nostra gente, uno delle tante possibili narrazioni che raccontano la storia degli uomini e delle donne della nostra bellissima terra. Perché, ne sono sempre stato convinto, quella dei nostri stadi è una storia italiana, la parabola di un’eccellenza del nostro Paese, del suo genio e della sua sregolatezza. Io l’ho raccontata a modo mio, l’unico che conosco. Una storia forse segnata da errori, sprechi, degrado, eccessi e approssimazione, ma anche ricca di gloria, successo e talento. Sono queste, del resto, le parole che chiudono il mio libro. È questo, e nient’altro, che mi ha spinto a raccontare le vicende passate dei nostri stadi. La loro storia, la nostra storia. Sono passati quasi quindici anni dalla prima pubblicazione di Stadi d’Italia e mai avrei pensato di ritrovarmi, a distanza di tanto tempo, a parlare e scrivere ancora di arene e spalti. D’altronde, ho sempre pensato al mio lavoro di ricerca come al punto di partenza per altri, non per me. Con Stadi di Calabria ho deciso di scendere ancora più in profondità e di esplorare il calcio regionale, così lontano dall’asettico football glamour impostoci dall’alto, una reiterazione infinita di una rappresentazione globalizzata del tutto slegata dalla comunità e dal territorio. Che ne sa Infantino del pino marino del Ceravolo? Ceferin ha mai visto le timpe e la terra rossa del Finocchio a Guardavalle? Nel tempo, per non ripetermi, ho cercato di variare il linguaggio narrativo, il modo e i tempi del racconto. Mi sono divertito, più di quanto potessi immaginare. La mia è una ricerca infinita perché al termine di ogni storia ne comincia un’altra, come un lungo viaggio senza una vera fine e un vero principio. Del resto Stadi d’Italia si apriva con le parole di Borges che ci ricordano come ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada lì ricomincia la storia del calcio. Questo libro in fondo potrebbe essere scritto mille volte in forma sempre diversa. Invece non l’ha scritto mai nessuno e ancora faccio fatica a crederlo. E mi ha molto colpito l’indifferenza, per non dire l’avversione, che ho percepito spesso durante le mie ricerche sull’argomento, soprattutto in quegli ambienti che dovrebbero invece promuovere, sostenere e valorizzare la storia e le testimonianze dell’evoluzione del calcio, temi che nel resto del mondo – ma non da noi – sono giustamente valorizzati come patrimonio di conoscenza utile alla ricostruzione della cultura locale, del passato sportivo e dei fenomeni sociali del territorio.”
Gli stadi sono considerati le case dei popoli, identificativi di un senso di appartenenza territoriale che trascende dal semplice spirito sportivo. Lei che sensazioni prova quando mette piede in uno stadio?
“Guai a quella città che non trovi posto per il tempio» ammoniva l’oratore e politico ateniese Demostene. Ogni religione vuole il suo luogo di culto. Il calcio ed il suo dio pallone non fanno eccezione e lo stadio acquisisce la connotazione spirituale e culturale di una cattedrale, avvicinandosi al “genius loci”, lo spirito di un luogo che gli antichi romani identificavano nelle vicende e nei riti collettivi del territorio e della sua comunità. Ed è sempre stato così, perché gli stadi di oggi sono le arene di ieri, i luoghi urbani deputati ad
ospitare gli spettacoli sportivi e le manifestazioni di massa, ciò che un tempo erano i circhi e gli anfiteatri dell’antichità classica. Del resto tra gli spettatori del Cico Massimo e quelli dello Stadio Olimpico, nonostante i due millenni di distanza, non vi è poi molta differenza, accomunati dallo stesso desiderio di assistere ad uno spettacolo e di essere parte di un rito collettivo in un luogo di aggregazione di emozioni. E con una partecipazione trasversale, allora senatori e plebe, adesso operai, professionisti, precari, imprenditori, balordi e autorità tutti affiancati. Per il resto gli impianti che ospitano le partite di pallone sono un patrimonio affettivo e nulla più. Poche sono le strutture davvero valide dal punto di vista architettonico, quasi tutte costruite nell’era fascista. Sono proprio i nostri stadi a non lasciarsi amare, avviliti tra poco eleganti tribune in tubi metallici e poco confortevoli soluzioni architettoniche figlie di discutibili ristrutturazioni ripetutesi nel tempo. Niente atmosfera, poca identità e anche una buona dose di sfortuna se è vero che la costruzione di gran parte degli impianti negli ultimi anni ha coinciso con sconcertanti débâcle sportive delle squadre locali (così a Padova, Reggio Emilia, Monza, Campobasso, Ancona, San Benedetto, Trieste, Messina, Teramo)”.
Com’è noto, la questione stadi in Italia è un “grattacapo” che affonda le sue radici in problemi sociali ed economici assai remoti. Quale potrebbe essere – secondo lei – la ricetta per dare impulso ad un processo innovativo e avvicinarci alle realtà sportive degli altri grandi Paesi europei?
“Non dobbiamo avvicinarci alle realtà sportive degli altri, bensì recuperare la nostra identità, il nostro senso di appartenenza, la storia, la tradizione, tornare a essere ciò che siamo sempre stati e sempre saremo. Un buon 20% dei miei libri è stato acquistato all’estero, soprattutto in Austria e Germania, e non da immigrati ma dai tanti groundhoppers che ogni fine settimana valicano le Alpi e macinano chilometri e chilometri per seguire le gare dei nostri campionati minori, affascinati come sono dai nostri stadi brutti, sporchi e sbilenchi, pieni di passione e atmosfere di un calcio che non c’è più. Le tecno-arene teutoniche sono belle, colorate e ultra confortevoli, ma quanto a carattere e identità perdono il confronto con i nostri vecchi catini, mi dicono. Nella galleria dei loro smartphone di ultima generazione troverete solo foto rubate di vecchi spalti e campi polverosi. E i semisconosciuti archi d’ingresso dello Zini, dell’Arena Garibaldi, del Tardini, del Picco che nessuna nostra tv mai vi mostrerà”.
Nel suo libro ha trattato con molta cura anche gli stadi di provincia, molto spesso lontani dai riflettori. Con particolare riferimento alla realtà degli impianti sportivi del sud Italia, che ruolo dovrebbero assumere le amministrazioni locali per non disperdere un patrimonio così prezioso?
“Al Sud i problemi sono doppi, per i motivi che sappiamo, ma l’oggettiva modestia delle strutture sportive è un discorso che va ben oltre e riguarda, in qualche modo, l’intero Paese. I luoghi che da noi ospitano le partite di pallone sono la cartolina di una nazione che sarà pur sempre nel G8 ma, quanto a infrastrutture e investimenti, ha sempre avuto una visione di breve respiro. Negli ultimi 15 anni in Europa sono stati costruiti o ristrutturati circa 150 stadi (26 nella sola Polonia, per dire) per un investimento totale di oltre 20 miliardi di euro. Di questi solo 5 in Italia, dove non sono stati spesi neppure 200 milioni di euro (anche perché abbiamo ben altre priorità). Questo dimostra inequivocabilmente come non ci sia stata attenzione per le infrastrutture. L’attuazione di politiche finalizzate a favorire l’adeguamento e la valorizzazione degli impianti sportivi esistenti e la costruzione di nuove attrattive ed efficienti strutture è una necessità incombente da anni – non solo al Sud – che trova però molteplici difficoltà e ostacoli, tanto di natura economica e burocratica, tanto derivati dalla mancanza di una visione di una politica di medio-lungo termine per la trasformazione di un sistema infrastrutturale (solo cinque stadi, quelli di Juve, Udinese, Sassuolo, Frosinone e Atalanta, sono di proprietà privata o comunque in concessione pluriennale). Siamo la terra delle opere incompiute, degli stadi più vuoti e vecchi, come ci informa una recente ricerca. Siamo ancora lì a leccarci le ferite dello sciagurato Mondiale 90 con i suoi impianti nati già vecchi (scarsa visibilità, alti costi di gestione e manutenzione, pista di atletica, privi di copertura e di tutti quegli elementi che sarebbero divenuti di lì a breve indispensabili se non obbligatori in termini di sicurezza e di infrastrutture per i servizi dei media), uno sperpero immane di denaro pubblico (+84%), la triste perdita di ventiquattro operai e nessuna attenzione al post-evento (si confronti lo Stadio Olimpico per i giochi di Atlanta nel 1996, il “Centennial Olympic Stadium”, più volte riconvertito e riadattato nel corso della sua breve storia). Da allora non è successo nulla, a parte gli interventi per la messa in sicurezza, a colpi di decreto e deroghe del prefetto, quasi sempre sull’onda emotiva di fatti incresciosi, come l’omicidio dell’ispettore Raciti del 2007.
La cartina dello stivale è desolante: l’età media delle nostre arene è di quasi settant’anni, quasi uno stadio su due fu costruito quando l’Italia era ancora un regno e non una repubblica; solo gli impianti britannici hanno un’età media superiore, ma – oltre ad aver saputo valorizzare la loro vetusta età in termini di tradizione e identità – dal 1980 gli inglesi hanno beneficiato di importanti ristrutturazioni oltre che di nuovi impianti. La maggior parte dei campi ha o ha avuto la pista di atletica, ancora oggi in Serie C – ma pure in B – si vedono addirittura alcuni velodromi (Mantova, Lanciano, Carpi, Varese, Pesaro, Bassano, Pordenone, Fiorenzuola e L’Aquila). Nella maggior parte dei casi la pista di atletica viene utilizzata solo in rarissime occasioni e con scarsa presenza di pubblico, con l’evidente conseguenza che solo poche volte l’abbinamento pista di atletica/stadio rappresenta una giusta scelta progettuale e gestionale. Inutile lamentarsi se la gente diserta gli spalti e preferisce la comodità televisiva, se le presenze nel massimo campionato sono crollate proprio negli anni in cui sono cresciute quelle dei tornei nostri concorrenti.
La mancanza di investimenti in infrastrutture e servizi, così come l’assenza di una visione di lungo periodo e di un management adeguato, hanno comportato una gestione fallimentare degli stadi di calcio italiani che, protrattasi per anni, è divenenuta, senza dubbio, una delle principali cause del vistoso calo di spettatori riscontrato in Italia nell’ultimo ventennio. A svuotare gli spalti hanno concorso senza dubbio anche le misure restrittive (tornelli, biglietti nominali, tessera del tifoso) e l’overdose di calcio in tv che ha drogato non solo i club ma anche i tifosi, vincolati sempre più al divano di casa che non alle gradinate degli stadi.
Per come la vedo io, però, ad allontanare davvero la gente è soprattutto la mancanza di emozioni, da quando “i signori del pallone” hanno svuotato il calcio dei suoi contenuti identitari, rituali, mitici, simbolici, sentimentali che hanno fatto la fortuna secolare di questo sport nazional popolare: il riconoscersi in una squadra, nella sua storia, nella sua tradizione, nei suoi colori, nelle sue maglie, in certi giocatori-simbolo, nel suo carattere la cui continuità era assicurata dal passaggio di testimone, in campo fra gli ‘anziani’ e i giovani del vivaio e, sugli spalti, nella rapporto di padre in figlio che per un certo periodo della propria esistenza oltre a una passione condividono un luogo fisico, gli spalti. E il riconoscersi nelle sue arene, aggiungerei, perché è lo stadio il terreno sacro dove si riunisce la tribù del calcio.
Tutto ciò per forza di cosa si riflette sul campo di gioco. Non parliamo di sfortuna, dai, il crollo azzurro e le sberle che pendiamo nelle coppe sono il logico corollario di un sistema autoreferenziale e autocelebrativo che, tra inchini e arcobaleni, non ha mai trovato il coraggio di affrontare un vero cambiamento culturale e tecnico di intendere il calcio, rimandando all’infinito ogni necessario avvicendamento di uomini, tecnici e dirigenti. Il calcio da gioco si è trasformato in prodotto e gli spettatori da tifosi sono diventati clienti – sempre più paganti ed esigenti – di una rappresentazione che pretestuosamente e ossessivamente continuiamo a chiamare spettacolo. Potremmo parlare di squadre, anche giovanili, composte unicamente da giocatori stranieri; oppure dell’immondo mercimonio di titoli sportivi, di economiche tribune in tubi, di società che si trasferiscono in stadi e città lontani, di superlega, di presidenti avventurieri, di una Coppa Italia brutta come la fame, di var, di debiti, di malcelate plusvalenze e di tante altre cose tristi. Tutto va verso quello sradicamento del calcio dal territorio e dalla comunità deciso dall’alto per arrivare a una rappresentazione solidale e inclusiva (?), retta da valori vuoti e artificiali, di ciò che un tempo è stato il giuoco più bello del mondo. Il destro tagliente di Trajkovski che ci ha sbattuto (ancora) fuori dai Mondiali, in fondo, lascia il tempo che trova perché non ha nulla a che vedere con tutto questo. A me dispiace per i giovani che non hanno vissuto i magnifici anni passati, non hanno provato quelle emozioni che resero schifosamente felice un’intera generazion e non hanno sognato con noi in quelle notti magiche di un’estate italiana.
Ecco, tornando alla domanda iniziale, per non disperdere questo patrimonio sportivo e architettonico, ma sopratutto affettivo e sociale, occorre passare necessariamente attraverso il recupero di queste emozioni, di questi rituali e di questa simbologia, atmosfere di un calcio che non c’è più. Le amministrazioni comunali hanno un ruolo fondamentale, estremamente impegnativo, riallacciare i perduti legami con il territorio e la comunita, restituire al calcio i suoi contenuti identitari, i quali nascono e si sviluppano solo a livello locale”.
In Calabria gli stadi più rappresentativi conservano tutti una grande storia calcistica. Ma diversamente dalla loro storiografia, la politica molto spesso sembra restare diffidente allo sviluppo sociale e strutturale del fenomeno calcistico. Lei pensa che la mancanza di stadi “adeguati” possa ritardare in qualche misura il rilancio del calcio regionale (calabrese) verso palcoscenici più importanti?
“Nel calcio moderno la mancanza di adeguate strutture rappresenta indubbiamente un handicap insormontabile per qualunque società che aspiri al vertice, in ogni categoria. Non solo uno stadio funzionale, anche e soprattutto centri di formazione e allenamento se si vuole crescere in prospettiva con una visione di lungo periodo. Non mancano al Centro Sud esperienze positive, penso soprattutto al Benevento della famiglia Vigorito e al Frosinone degli Stirpe che hanno saputo programmare e sviluppare la propria gestione in maniera concreta e lungimirante su territori, il Sannio e la Ciociaria, non sempre generosi con i propri figli. In Calabria ci si è arrangiati, il più delle volte, si è improvvisato facendo di necessità virtù. A Catanzaro, quando arrivò la Serie A, per accogliere più spettatori al Ceravolo si costruirono ulteriori gradini su quelli già esistenti nelle prime file in basso; al vecchio Morrone di Cosenza, con scarso rispetto delle regole urbanistiche e di sicurezza, la Gradinata Nord venne ingrandita abbattendo le mura esterne ed utilizzando lo spazio ottenuto dalla eliminazione del marciapiede di Via Cattaneo; analogamente per ingrandire la Tribuna A fu sacrificato il marciapiede di Via Galluppi dietro alle mura esterne. A Rende, per far fronte alla richiesta di biglietti, davvero enorme, per il primo derby con i lupi cosentini, nel 1979 l’allora sindaco Cecchino Principe fece edificare in fretta e furia l’attuale curva posta sul lato sud del Lorenzon. Per ultimare i lavori nel minor tempo possibile le ditte incaricate non si fermarono neppure di notte, operando ininterrottamente. A Crotone la Serie A arrivò troppo in fretta, così i nuovi spalti della tribuna furono dotati di copertura soltanto un anno dopo la loro costruzione. E così via, anche e soprattutto nei centri minori, come a Scalea dove la spartana tribunetta in cemento, inizialmente era di fatto “un muro obliquo mancante di gradoni che consentiva la seduta, dopo un’avventurosa e pericolosa arrampicata, solo nell’ultima parte superiore”.
E non è solo una questione di curve e tribune perché la situazione attuale in Italia mostra un ritardo preoccupante anche nella gestione diretta delle attività interne allo stadio, tra cui l’affitto di sale per l’organizzazione di eventi o di conferenze, la vendita diretta degli spazi pubblicitari, la gestione della ristorazione, dell’area ospitalità, dei parcheggi, dell’area commerciale, il tour dello stadio (il Barça incassa dai tour 30 milioni, la Juve 4), i palchi vip, soprattutto la sfruttamento all’estero del brand (il Manchester United su tutti, ha uffici ovunque nel mondo)”.
Lei di stadi ne ha sicuramente girati molti. Tralasciando gli impianti sportivi più conosciuti al popolo calcistico, qual’e’ quello che le ha suscitato più emozioni?
“Visivamente mi ha stregato la doppia tribuna del campo di Rovigo, i vecchi spalti che come uno spettro del passato appaiono alle spalle della nuova tribuna. Il passato che non passa. E la somiglianza degli stadi costruiti da Rozzi: Avellino ed Ascoli (ma anche Lecce) sono assai simili, quelli di Benevento e Campobasso pressoché identici. Poi ci sono i dettagli cult, le visioni iconiche, come le scale di San Siro, quelle elicoidali del campo di Firenze o gli archi bolognesi ripresi dalle terme di Caracalla. Ma ciò che davvero mi ha affascinato è stato il minuscolo Vezzosi di Orbetello, racchiuso tra le acque di una laguna senza tempo, i bastioni della fortezza spagnola e le mura di cinta del vecchio idroscalo conosciuto per le imprese aviatorie di Italo Balbo. Meriterebbe un libro a parte. Come il campo di Terracina, quello di Piombino e chissà quanti altri prati di polvere e sudore che ci aspettano sulla giostra dei ricordi”.
Da calabrese doc e tifosissimo del Catanzaro mi deve concedere il privilegio di porle una domanda sul “Ceravolo”. Uno stadio che ha ospitato i più grandi calciatori italiani ed europei a cavallo degli anni ‘70 e ‘80. Conserva qualche ricordo in particolare di quello che fu considerato un vero e proprio tempio per tutti i calabresi di quegli anni?
“Io ero troppo piccolo per ricordare l’incornata di Mammì che affossò la Juve sotto la Curva Est, ma rammento bene le folate di vento sfruttate sapientemente dal genio di Massimo Palanca, autore di numerose reti spettacolari dalla lunga distanza, spesso direttamente da calcio d’angolo con la complicità di Claudio Ranieri che si piazzava davanti al portiere. Poi, certo, il pino marino che è entrato nell’immaginario collettivo di tutti noi e che per molti è ancora là, al suo posto. In verità il vecchio Stadio Militare non è mai stato uno stadio affascinante, tranne che nella sua veste iniziale quando sul lato lungo del campo posto più a nord vennero costruite le tre graziose tribune in legno, ben arredate internamente, di fatto simili a piccole case prive di una facciata, quella rivolta verso il terreno di gioco. Difficilmente il Ceravolo verrà ricordato per il suo profilo architettonico, oggi come ieri tremendamente irregolare e assai poco elegante in seguito allo sconcertante numero di interventi di ampliamento e ammodernamento succedutisi nel tempo e quasi mai ben riusciti (della costruzione alle spalle dei Distinti mi rifiuto di parlare). La sua importanza, va da sé, risiede in ciò che rappresenta, un fiume di ricordi ed emozioni per tante generazioni di catanzaresi. Un impianto che come tanti figli di Calabria sembra trarre vigore da sacrifici e sofferenze e che ha saputo cambiare pelle più volte nel corso della sua storia”.
Riuscirà a deliziarci con un’altra opera?
“Molti hanno inteso Stadi di Calabria come il preludio ad una serie di ricerche e pubblicazioni sulla storia degli stadi a livello regionale, ma non è così. Perché c’è un tempo per tutto e io credo, in fondo, di aver ormai portato a termine il mio compito, quello di rimuovere l’oblio calato sui nostri stadi e di raccontarne la storia. Certi libri vanno scritti comunque, perché così sono alcune storie. Devono essere raccontate e basta, qualcuno lo avrebbe fatto al mio posto, prima o poi. Quella dei nostri stadi, tra l’altro, è una gran bella storia, perché non raccontarla? “Il mondo è fatto per finire in un bel libro” diceva Mallarmé, ed è proprio così. E poi basta, che siano altri a raccontarne il finale, magari è la volta buona che torno a occuparmi di temi più nobili, soprattutto la storia medievale e la letteratura del fantastico, mie vecchie passioni, così come le opere di John Fante e Joseph – anzi, Józef – Conrad. Oltretutto seguo sempre con interesse i progetti dei colleghi, spesso sono io stesso a suggerire i lavori di ricerca e non ho mai fatto mancare il mio contributo, per quanto possibile, condividendo il materiale o scrivendo una prefazione”
Le foto del libro sono realizzate da Massimo Carlostella
Si è dimenticato lo stadio Granillo di Reggio Calabria, complimenti non era facile…
Salve, lo stadio “Granillo” è presente nell’intervista e anche nell’opera dell’autore.